Consultando uno dei tanti articoli accademici sullo stato dell’arte delle Digital Humanities, vi è un’alta probabilità di imbattersi in una sezione dedicata ai rischi delle metodologie sperimentali e in una, spesso prontamente giustapposta, riferita invece alle opportunità concesse dalla potenza dei nuovi strumenti di indagine. Lo sguardo però, come naturale che sia in un contesto di studio e di ricerca, è sempre rivolto al futuro: ogni contrasto va accettato e tenuto sempre in considerazione, ma spesso si arriva alla conclusione che la sfida risultante non può che essere propedeutica all’evoluzione della materia. D’altronde, è «l’intera storia degli studi letterari a essere ricordata principalmente come un racconto di idee contrastanti» [1]. Le Digital Humanities ereditano dunque una lunga tradizione di conflitti interni; gli studiosi ne prendono atto, e si concentrano a più riprese sul trovare una mediazione tra le parti nei modelli che propongono.
In questo senso, uno dei dibattiti più interessanti degli ultimi anni è quello tra quantificazione ed epistemologia. Da un lato, la digitalizzazione ha portato con sé la possibilità di tenere traccia di tutte le componenti di un testo, a patto che fosse possibile scansirlo e trasferirlo in un corpus digitale; dall’altro, il rapido sviluppo dei programmi informatici ha permesso la creazione di sofisticati modelli che individuassero pattern precisi, mettendo in relazione dati fino a quel momento non rintracciabili. Forti di queste nuove possibilità, circa venti anni fa si è scommesso sulla possibilità di partire da modelli astratti, come la statistica, per analizzare la letteratura; lo si è fatto, per stessa ammissione di chi ha dato il via al movimento [2], in maniera più estemporanea che sistematica. Come spesso accade, ci si è lasciati guidare da quello che si intravedeva nel percorso, senza avere la possibilità di conoscere l’ubicazione precisa della meta. A volte, persino dimenticandosene. Il metodo quantitativo nasce dunque da studi empirici, da una serie di esperienze sul campo, che hanno portato le DH a confrontarsi con un approccio centrato sul dato crudo, piuttosto che sulla sua esegesi. La differenza tra lo studio ermeneutico e quello quantitativo della letteratura è tutta nel rapporto che essi hanno con l’oggetto di riferimento: il primo lo interpreta, il secondo ne ha un assoluto rispetto.
Due approcci antitetici sin dalle loro premesse, ma la cui compartecipazione, spesso, si è rivelata proficua. Un caso studio di particolare interesse è quello delle reti drammatiche, condotto da Franco Moretti in prima persona e il cui resoconto è riportato nel capitolo Simulazioni, forme, storia [3] del suo ultimo lavoro, Falso movimento. La svolta quantitativa nello studio della letteratura. Si tratta di una simulazione digitale in grado di riprodurre con una certa esattezza, grazie a parametri impostati sugli aspetti dialogici dei testi, l’andamento drammatico di un’opera. Il modello è stato costruito partendo dalla sperimentazione su I Persiani di Eschilo, per poi essere perfezionato ed esteso alle tragedie di quattro autori differenti: Sofocle, Shakespeare, Racine, Ibsen. La scelta non fu casuale, poiché ogni dramma preso in esame rappresenta un momento diverso della storia della forma tragica. L’intento era chiaro: rendere palesi le diversità strutturali attraverso la raccolta e la disposizione sistemica di dati, che potevano andare dal numero di battute in scena alla quantità di risposte date da un personaggio a un altro. Alla fine, furono adottati quattro parametri distinti: Centralità (la probabilità di presenza sulla scena), Fedeltà (la probabilità che un personaggio cominci a parlare con un altro), Reciprocità (la probabilità che un personaggio risponda, fino all’esaurimento del dialogo), Casting (la probabilità che un personaggio ricominci a parlare, che ne entri uno nuovo in scena o che la scena stessa si concluda). Il momento ermeneutico si presentò quando il modello, che sembrava funzionare fino a quel momento in maniera appropriata, si scontrò con Il costruttore Solness di Ibsen. Improvvisamente la simulazione non sembrava più dare risultati accurati. Fu necessario interrogarsi su dove fosse l’errore. Era nel modello o nella particolare scrittura del drammaturgo norvegese? Bisognava ragionare sul senso delle sue opere, e in particolare su quelle del ciclo borghese. Lo scopo di Ibsen era quello di mettere in mostra, in tutta la sua desolante verità, il lato oscuro della borghesia. Il modello riusciva forse a riprodurre questo tratto? Moretti rifletté a lungo. Dopo essersi trovato ad avere a che fare con un caso simile per l’Andromaca di Racine, giunse a una conclusione: la simulazione non ha lo scopo di riprodurre la realtà, quanto di rendere misurabile, e quindi comprensibile, la struttura. Se questo poi sarà utile, lo dirà il tempo.
Moretti, partendo da un’analisi quantitativa, si ritrova costretto a riflettere sul senso dei modelli creati in relazione al significato generale delle opere prese in esame; si trova quindi a dovere interpretare i dati. Negli studi sperimentali, l’alternanza tra approccio ermeneutico e quantitativo funziona proprio così: dall’uno si passa rapidamente all’altro, per poi tornare indietro arricchiti da considerazioni nuove. L’auspicio, che lo stesso Moretti esprime chiaramente, seppur con notevole pessimismo in merito alla possibilità che ciò si realizzi [4], è che nel futuro si superi questa impostazione conflittuale, per giungere a un nuovo approccio omogeneo, in cui le due componenti operino in modo indistinto e sinergico.
Bibliografia
[1] Andrew Goldston, Ted Underwood, The Quiet Transformations of Literary Studies: What Thirteen Thousand Scholars Could Tell Us, in New Literary History, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 2014, p. 359.
[2] Cfr. Franco Moretti, Falso movimento. La svolta quantitativa nello studio della letteratura, Milano, Nottetempo, 2022, p. 10.
[3] Ivi, pp. 55-82.
[4] Ivi, pp. 35-37.
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